Alviero Chiorri (1975-1981 e 1982-1984)

attaccante (2° punta)

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    Il "Fu Mattia Pascal" del calcio è ricomparso. Esistenza pirandelliana quella di Alviero Chiorri che tra essere uno o centomila a 33 anni, preferì smettere e diventare «nessuno». Come un Rimbaud del pallone, dopo sedici stagioni passate all'inferno del calcio, appese le scarpe ed è ripartito dal paradiso di Cuba. «Avevo bisogno di tornare ad essere un perfetto sconosciuto. Essere apprezzato prima di tutto come uomo, perché la notorietà mi ha sempre dato fastidio». Parla pacato, il redivivo Chiorri, scuro nell'abito da Dylan Dog, il codino mesciato su una faccia abbronzata dal sole de L'Avana, mentre sorseggia un aperitivo in un baretto di Torrimpietra, a due passi dal mare.

    Quel Tirreno che risalì fino a Genova per diventare un piccolo grande eroe della Sud doriana. «La Samp mi prese dalla Pro Roma che avevo 15 anni: a 17 (stagione '76/'77) Bersellini mi fece esordire in Serie A». Doveva essere l'inizio di una storia da scrivere a caratteri d'oro, come lo scudetto che il sergen te Bersellini andò a vincere due anni dopo in un'Inter, in cui avrebbe volentieri apprezzato anche la fantasia dell'Alviero.

    «Bersellini mi voleva portare, poi l'Inter prese Beccalossi. Così rimasi a Genova. Alla gente di Marassi piacevo da impazzire, ma sentivo di essere caduto in un gioco più grande di me. Oggi i ragazzi che fanno il loro esordio in A molto presto, sono mentalmente più preparati. Io invece non mi sapevo gestire». Ingestibile al punto da essere spedito in prestito a Bologna dove incontrò i suoi due gemelli minori, Mancini e Macina. «Costituivamo un trio favoloso. Tecnicamente Macina era il più forte, ma la differenza tra noi la faceva Roberto, più potente, più calciatore. Ho capito con gli anni che nel calcio non è solo questione di tecnica, il campione vero è più completo sotto tutti gli aspetti. Penso a Van Basten, il più grande che ho incontrato, ma anche a uno come il "Mancio"».

    Il giovane Mancini stregato dai suoi numeri, lo seguì l'anno dopo, alla Samp per q ue llo che doveva essere un ritorno da principe. E invece... «La Sampdoria stava crescendo, ma io non andavo di pari passo e a un certo punto il presidente Mantovani fu costretto a cedermi alla Cremonese. Quando mi salutò aveva le lacrime agli occhi e mi disse: "Alviero, sei stata la più grande delusione della mia vita". Quella frase me la sono portata dentro fino all'ultimo giorno che sono sceso in campo». Ma a Cremona trovò l'amore del presidente Domenico Luzzara e lo stadio Zini conserva ancora il ricordo delle sue esibizioni come le più belle perle di una storia centenaria.

    «Ho sempre cercato la giocata impossibile e lo facevo perché avevo solo un disegno in testa: far divertire la gente. Appartengo a quella categoria di giocatori che piacciono tanto ai tifosi e molto poco agli allenatori, perché non sanno trovargli una collocazione in campo, quindi se girano bene, altrimenti li fanno dannare. E io li ho fatti dannare tutti».
    Una dannazione gettata alle spalle da quel 24 maggio 19 92. Quel giorno, proprio contro la sua Samp a Marassi, decise di smettere, portandosi via gli ultimi applausi di una curva, e qualche rimpianto. «Per esempio quello di non aver mai segnato nel derby contro il Genoa. Questa è una delle poche cose che mi mancano di quegli anni. Come mi mancano gli scontri duri, ma sempre leali con il povero Gorin. Finita la gara si andava a bere insieme in un locale dove cantavano i nostri amici New Trolls».

    Carezza della sera genovese, ritrovata appena calciato via un pallone al di là dell'Oceano. «Ho smesso quando ho sentito il peso del tradimento. Tradito da un mondo che forse non era mai stato completamente il mio. Sono sempre più convinto di essermene andato via quando si cominciava a giocare ovunque fuorché in campo. Prima che il calcio diventasse solo mercato e compromessi. E quelli proprio, io non ho mai saputo cosa siano».
     
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